2.4 Inquadramento della ricerca proposta (in ambito nazionale ed internazionale) / National - international framing of the research program
Fino ai primi dell'800 le grammatiche delle lingue europee classiche e moderne erano inquadrate in quel modello di analisi linguistica che Hockett (Two models of Grammatical Description, 1954) ha definito Word-and-Paradigm (in contrapposizione ai più moderni approcci di tipo Item-and-Arrangement e Item-and-Process). In questo modello, la parola è considerata l’unità minima della lingua; la grammatica viene concepita come l’insieme di due parti: lo studio delle parola in isolamento, ossia le classi di parole e la loro flessione, e lo studio della parola in combinazione, ossia la sintassi della frase e del periodo. È solo dopo la "scoperta" del sanscrito da parte dell'Occidente e la formulazione dell’ipotesi I(ndo)E(uropea) di Bopp che la morfologia derivazionale e il concetto di radice IE entrano a pieno titolo nel panorama della linguistica storica e poi generale (Alfieri, The entry of the Indian notion of root into Western linguistics. From Colebrooke to Benfey, in stampa).
Lo studio del sanscrito si basava allora, come nell'antichità, sulla tradizione risalente al grammatico indiano Pāṇini (V sec. a. C.). Il suo trattato grammaticale Aṣṭādhyāyī colpisce per la sua modernità teorica e il potere descrittivo, paragonabili a quelli della linguistica contemporanea, di cui Pāṇini fu un geniale anticipatore (Kiparsky, On the Architecture of Pāṇini's Grammar, 2002; Keidan, Compositional history of Pāṇini's kāraka theory, 2010). La tradizione indiana (e, in misura minore, quella araba) ebbe un'influenza diretta sui primi comparatisti (Bopp, Schlegel ecc.). Il modello della descrizione morfologica adottato da Pāṇini è di tipo Item-and-Process (Misra, The Descriptive Technique of Pāṇini, 1966: 66; Cardona, Pāṇini: a survey of research, 1976: 232). Questo significa che le forme sanscrite vengono derivate a partire da elementi minimi — oggi li chiameremmo morfemi lessicali e morfemi grammaticali — che vengono uniti in parole ben formate (in inglese word form) tramite una serie di processi trasformativi e agglutinativi. Di conseguenza, l'innovazione di Bopp consistette proprio nella scomposizione della parola nelle sue parti componenti: la radice e gli affissi. Tale innovazione dunque non nacque nell'alveo della tradizione classica (a differenza delle categorie di nome, verbo, aggettivo, predicato ecc.), ma fu presa in prestito (insieme al concetto di derivazione) dalle due tradizioni indigene menzionate sopra. Già questo fatto storico costituisce un valido motivo per lo studio della tradizione grammaticale indiana (e di quella araba).
Un altro punto su cui Pāṇini risulta un precursore dei tempi è la sua distinzione tra morfemi flessionali e derivazionali (chiamati kr̥t e taddhita). Una distinzione teorica alquanto simile si riscontra anche nella tradizione araba, come dimostra un'analisi più attenta dell'uso del termine kalima da intendersi non come 'parola', ma piuttosto come 'unità di base dell'analisi linguistica' (cf. Owens, The Foundation of Grammar. An Introduction to Medieval Arabic Grammatical Theory, 1988; Owens, The Syntactic Base of Arabic Word Classification, 1989). La linguistica moderna, invece, ha definitivamente chiarito tale distinzione a livello teorico-tipologico solo in tempi recenti (cf. Bybee, Morphology, 1985; Dressler et al, Leitmotivs in Natural Morphology, 1987). Con questa distinzione teorica, insieme al concetto pāṇiniano di dhatu 'radice', la teoria grammaticale indiana antica si impone dunque come un interlocutore privilegiato nella discussione sulla natura della distinzione tra derivazione primaria (o deradicale) e secondaria (tematica), cf. Anderson, Inflectional morphology, 1985. Negli studi IE queste acquisizioni teoriche sono entrate solo di recente (cf. Tichy, Wodtko, Irslinger, Indogermanisches Nomen. Derivation, Flexion und Ablaut, 2003; Widmer, Das Korn des weiten Feldes. Interne Derivation, Derivationskette und Flexionklassenhierarchie, 2004; Heidermanns, Zur typologie der Suffixentstehung, 2004), ma manca ancora un lavoro di insieme che metta a frutto questa prospettiva nel caso della storia delle nozioni di radice e di morfologia derivazionale negli studi IE.
Per non rimanere nella pura speculazione teoretica, il linguista deve testare i propri modelli d'analisi sui dati reali risultanti da una ricerca sul campo. A tale scopo la presente ricerca si propone di prendere in considerazione la storia dell’evoluzione diacronica del suffisso IE *-ka- nelle lingue indoiraniche, in particolare, il contrasto tra l'uso di *-ka- nella fase indoiranica antica, in cui la derivazione deradicale è ancora produttiva, a quella iranica medievale, in cui la derivazione è ormai tematica. Anche questa fasa applicativa non può prescindere dal pensiero di Pāṇini: numerosi paragrafi della sua grammatica sono, infatti, dedicati proprio a tale suffisso derivazionale (cf. Edgerton, The K-Suffixes of Indo-Iranian; Ciancaglini, Il suffisso indo-ir. *-ka- nelle lingue iraniche antiche, in stampa; Ciancaglini, Outcomes of the Indo-Iranian suffix *-ka- in Old Persian and Avestan, in stampa). La raccolta dei dati sarà principalmente rivolta alle lingue indoiraniche, fermo restante il costante confronto con il greco e con le altre lingue indoeuropee. Tra le lingue iraniche il mediopersiano è sicuramente quella che presenta la situazione più complicata e meno studiata, sia per l'enorme ambiguità della scrittura utilizzata (per ovviare alla quale si fa ricorso soprattutto al mediopersiano scritto in grafia manichea, spesso in modo acritico), sia per l'oggettiva mancanza delle edizioni critiche di molti dei testi principali e l'assenza di un dizionario completo. La questione dei suffissi in velare nel medioiranico è stata toccata solo di rado, per esempio in un importante articolo di Rossi, Middle Iranian gund between Aramaic and Indo-Iranian, 2002, che però si occupa di aspetti filologici più che glottologici; o nell'esaustivo, ma limitato a una sola lingua, Degener, Khotanische Suffixe, 1989.
2.5 Sintesi del programma di ricerca e descrizione dei compiti dei singoli partecipanti / Synthesis of the research program and description of the duties of each participant
La ricerca si articolerà in tre aree tematiche principali, tra loro strettamente interconnesse:
– analisi del pensiero grammaticale antico indiano riguardante la morfologia;
– chiarificazione di alcuni punti teorici problematici della distinzione morfologia derivazionale vs. flessionale;
– diacronia della morfologia derivazionale tramite il suffisso in velare nelle lingue iraniche.
Saranno, inoltre, presi in considerazione alcuni argomenti collaterali (storia testuale della tradizione grammaticale indiana; diacronia del suffisso in velare in greco antico; analisi del pensiero grammaticale arabo) in quanto necessari allo svolgimento del filone d'indagine principale.
1) Artemij Keidan si occuperà di tutte le questioni relative all'eredità della tradizione grammaticale indiana antica, a partire dall'Aṣṭādhyāyī di Pāṇini, e fino ad alcuni grammatici e commentatori successivi. La teoria grammaticale indiana antica ci interessa per più di una ragione.
– Primo, Pāṇini è una fonte primaria di informazioni sul sanscrito, parallela ma non totalmente sovrapponibile a quella fornitaci dai numerosi testi vedici che sono sopravvissuti fino a oggi. A nostro avviso, va rimessa in pratica la consuetudine dei primi comparatisti di utilizzare direttamente la grammatica di Pāṇini (peraltro, alquanto difficile da decifrare e capire, vista l'algebricità del suo metalinguaggio) in un'indagine storico-linguistica delle lingue IE.
– Inoltre, la tradizione indiana è importante in quanto influenzò enormemente gli studi occidentali sul linguaggio, a partire dalla "scoperta" del sanscrito all'inizio dell'800, soprattutto per la definizione di alcuni concetti base della morfologia.
– Infine, la scuola di Pāṇini è una preziosa fonte di informazioni indirette sull'autocoscienza (lo Sprachgefül) dei parlanti della lingua-oggetto della grammatica (quale essa fosse precisamente non è scontato, cf. Deshpande, Pāṇini as a frontier grammarian, 1983; Historical Change and the Theology of Eternal Sanskrit, 1985). In altre parole, il modo stesso in cui Pāṇini e i suoi successori descrivono il sanscrito deve essere visto come conseguenza di un continuo processo di confronto (e quindi, di contatto) tra la lingua-oggetto, altamente codificata e verosimilmente non più utilizzata come lingua viva, e la madrelingua dei grammatici, in costante evoluzione dalla fase antica (sanscrito) a quella media (pracrito) dell'indoario.
Il lavoro previsto per questa fase della ricerca consisterà, dunque, nell'analisi di alcuni degli aspetti problematici della distinzione pāṇiniana tra suffissi kr̥t e taddhita, in particolare:
– Analisi dei parallelismi e delle differenze teoriche tra il concetto moderno di suffissazione primaria (deradicale) e secondaria (tematica) e i suffissi kr̥t e taddhita della grammatica indiana tradizionale. Le due coppie di categorie non sono sovrapponibili, per una serie di motivi: alcuni suffissi possono essere usati sia come primari e che secondari, con funzioni sostanzialmente identiche; spesso Pāṇini e i moderni discordano sull'inventario, con pari plausibilità; l'approccio indiano alla morfologia è totalmente sincronico, mentre quello occidentale è anche diacronico. Lo scopo sarebbe quello di stabilire un inventario di morfemi che vengono classificati allo stesso modo nei due approcci.
– Analisi delle possibili testimonianze linguistiche indirette contenute nella tradizione di pāṇiniana. Un esempio di questo approccio è l'ipotesi dell'affiorare del concetto di soggetto grammaticale nei commentatori medievali di Pāṇini, cf. Keidan, Direct and Indirect Evidence on Lability in Middle Indo-Aryan), da interpretare come conseguenza di un mutamento linguistico in atto. Un punto di partenza è la "monoesponenzialità" della grammatica di Pāṇini, ossia, il principio secondo cui ogni morfema esprime una sola funzione, e viceversa (vedi Kiparsky, On the Architecture of Pāṇini's Grammar, 2003: 44). Così, il suffisso -(i)ka- viene classificato in una sessantina di sottotipi che riprendono ogni minima sfumatura di significato che può esprimere. Tale visione della lingua sembrerebbe più appropriata per una lingua agglutinante che per una flessiva come il sanscrito, il che fa sorgere il sospetto che questo approccio sia dovuto a un'influenza alloglotta, ancora tutta da scoprire.
– Un'altra spiegazione di alcune incoerenze della teoria di Pāṇini potrebbe essere di tipo testuale. Come hanno ipotizzato Joshi e Roodbergen (The Structure of the Aṣṭādhyāyī in Historical Perspective, 1981), le sezioni della grammatica relative ai due tipi di suffissi potrebbero essere spurie, aggiunte in due epoche diverse. Altre ipotesi simili sono state avanzate (cf. Keidan 2007; 2010). Tale approccio va ulteriormente sviluppato. A tale scopo sarà necessario compiere una visita alla collezione dei manoscritti indiani di Oxford (precisamente, la Chandra Shum Shere collection, collocata nella Bodleian Library), dove il proponente stesso ha già riscontrato alcune varianti testuali alquanto promettenti in tal senso.
2) Claudia A. Ciancaglini si occuperà del suffisso *-ka- nelle lingue indoeuropee orientali antiche e medioevali (soprattutto, nelle lingue iraniche). La prima fase della ricerca consisterà nella raccolta e nella classificazione dei derivati in -ka- nell'avestico e nel persiano antico, e secondariamente degli analoghi derivati nel mediopersiano, dove fenomeni di rianalisi ed estensioni analogiche hanno condotto alla formazione di un gran numero di suffissi, sia in velare sonora: M(edio)P(ersiano) -ag, -āg, -ōg, -ug, -ūg, -īg; sia in velare sorda: MP -ak, -āk, -ik e -uk.
La prima fase della ricerca consisterà nella raccolta delle occorrenze dei derivati aggettivali che presentano i suffissi MP -ag, -āg, -ōg, -ug, -ūg, -īg, e dei derivati che, stando alla trascrizione di MacKenzie (A Concise Pahlavi Dictionary, 1971) e alla tradizione di studi sul mediopersiano, presentano suffissi aggettivali in velare sorda, principalmente -ak, -āk, īk e -ūk.
Riguardo alla funzione e alla distribuzione di tale suffisso aggettivale nelle lingue iraniche antiche, si cercherà di sopperire alla mancanza di uno studio sistematico sull'argomento: gli studi sul suffisso *-ka- riguardano quasi esclusivamente l'indiano antico (e.g. Edgerton, The K-Suffixes of Indo-Iranian, 1911, 93-150; 296-342; Debrunner, Altindische Grammatik. Band II.2: Die Nominalsuffixe, 1954) e sono ancora troppo legati alla classificazione tradizionale indiana, che aveva individuato circa 60 valori semantici diversi di -ka- e di -ika- (tenuto conto anche dell'accento, del grado apofonico e del comportamento morfosintattico delle categorie individuate, cf. Aṣṭādhyāyī 5.1.119–136).
Per l'iranico antico le informazioni sono più scarse. Le occorrenze sono in numero minore e le categorie elaborate dalla grammatica indiana non sembrano applicabili in modo semplice. Per l'avestico, si tenterà di accertare le funzioni del suffisso -ka-, oltre a quella di derivare gli aggettivi (i quali, peraltro, sembrano appartenere a un registro sociolinguisticamente basso). Per il persiano antico si cercherà di capire come mai tale suffisso, peraltro molto raro, compaia prevalentemente in toponimi ed etnonimi che indicano popoli non iranici, o sentiti come tali dai persiani (es.: Saka- 'scitico, scita'), e in parole provenienti dai dialetti iranici non sud-occidentali (es.: vazraka- 'grande', kāsaka- 'pietra semipreziosa').
Per il MP, si cercherà in primo luogo di analizzare la formazione e l'etimo dei derivati in -ag e -ak, entrambi risalenti a *-a-ka-, per verificare se già nel MP sia possibile individuare un'opposizione funzionale tra questi due suffissi, che nel MP dei libri non sono distinti a livello grafico, ma lo sono, almeno in parte, nel MP manicheo e nel neopersiano. Pertanto, sarà necessario prendere in esame anche le altre varietà di medioiranico: oltre al MP manicheo, il partico, il cotanese e il battriano, ossia le varietà che sono state più studiate in tempi recenti e per le quali si dispone di strumenti filologici e lessicografici adeguati (es.: Durkin-Meisterernst, Dictionary of Manichaean Middle Persian and Parthian, 2004; Degener, Khotanische Suffixe, 1989; Davary, Baktrish. Ein Wörterbuch, 1982; Sims-Williams, Bactrian Documents, 2000–2007) e che presentano l’ulteriore vantaggio di possedere sistemi grafici meno ambigui rispetto a quello del MP letterario.
Sarà altresì necessario riconsiderare il problema fonologico degli esiti dell’indoir. *k in posizione interna e finale nelle lingue medioiraniche. Infatti, il graduale processo di sonorizzazione e poi di scomparsa delle occlusive sorde postvocaliche non è stato omogeneo nelle differenti dialetti; inoltre, l'occlusiva velare si è sonorizzata più tardi delle altre occlusive sorde postvocaliche, come è confermato anche dalle trascrizioni epigrafiche greche di forme iraniche occidentali (cf. Pisowicz, Origins of the New and Middle Persian Phonological Systems, 1985: 139). Gli effetti del ritardo nella lenizione dell’occlusiva velare sorda postvocalica e della diversità del fenomeno nei vari tipi dialettali si osservano chiaramente nei numerosi esiti diversi che l’occlusiva velare sorda postvocalica ha nel neopersiano (in posizione finale, oltre all’atteso -Ø, si ha -g, -ɣ, -k, -x, -y): questi esiti neopersiani sono il frutto di prestiti interdialettali che, secondo Pisowicz, sono da attribuire alla fine dell’epoca mediopersiana, cioè dal VI sec. d.C. in poi.
Resta il fatto, però, che già in mediopersiano vi sono tracce inequivocabili di esiti diversi di *-k- in posizione post-vocalica: oltre a -g e -k, vi sono derivati in cui il suffisso *ka- presenta gli esiti -x, -h, e -Ø (quest'ultimo esito sembra comparire solo dopo il fonema lungo /a:/). Si tenterà quindi di capire se degli influssi interdialettali siano postulabili già per MP. Successivamente si tenterà di vedere quali funzioni svolgano i suffissi in velare in MP, e a quali specializzazioni morfosemantiche abbia condotto la risegmentazione di vocali tematiche seguite da *-ka- e rianalizzate come parti integranti dei nuovi suffissi.
Il risultato atteso dall'analisi di questi suffissi è triplice: si tenterà una chiarificazione teorica della differenza funzionale tra derivazione tematica e deradicale in IE sulla base delle testimonianze delle più antiche lingue orientali; inoltre, si cercherà di chiarire come l’intero sistema derivazionale deputato alle formazioni nominali, in particolare quelle in *-ka-, abbia subito una profonda ristrutturazione tra le lingue IE antiche e le loro fasi medievali, particolarmente in ambito indiano ed iranico; infine si cercherà di chiarire alcuni problemi fonologici e grafici del medio e neopersiano relativi ai nomi in *-ka-, particolarmente la molteplicità di esiti indoiranici di *-a-ka‑, di solito riconosciuta solo per il neopersiano, ma in realtà già presente anche in mediopersiano.
3) Luca Alfieri si occuperà delle nozioni di radice e di morfologia derivazionale nella storia degli studi IE, tra Bopp (1816), Saussure (1916) e Meillet (1923).
L’ingresso della nozione di radice negli studi IE sarà indagato nella prospettiva popperiana che vede la storia della scienza come successione di paradigmi scientifici (paradigm shifts). Il modello Word-and-Paradigm, come è stato descritto da Hockett (1954), rappresenta il paradigma dominante per l’analisi linguistica del primo '800, ossia veicola l’insieme delle conoscenze condivise, rispetto a cui posizionare la nozione di radice. Le grammatiche native araba e indiana, di contro, sono basate proprio sulla scomposizione della parola nelle sue parti componenti, sulla descrizione della derivazione morfologica come di un processo e sul concetto di radice. Dato che il modello WP non accetta unità di analisi inferiori alla parola (con l’eccezione delle desinenze) e non conosce la morfologia derivazionale, ci si potrebbe interrogare sul motivo che spinse Bopp a basare proprio su di esse la sua ipotesi IE. Sembrerebbe chiaro, quindi, che Bopp importò il concetto di radice che gli serviva per dimostrare la parentela delle lingue IE dalla grammatica araba e indiana. La radice e la morfologia derivazionale finirono, quindi, per avere uno statuto complesso nella linguistica dell'800: al contempo erano incomputabili nel modello WP, che non accettava unità inferiori alla parola; dall’altra erano irrinunciabili per l’ipotesi IE, che rappresentava la principale novità della linguistica dell'800.
Il contrasto tra il modello WP e la nozione di radice araba, indiana e IE, e la descrizione delle modalità in cui i diversi studiosi che si sono succeduti tra Bopp (1816) e Saussure (1916), saranno il soggetto principale della ricerca. La metodologia sarà quella della ricognizione storica dei testi originali alla luce della letteratura secondaria più aggiornata. La descrizione della nozione di radice verrà così articolata attraverso le fonti:
– la radice come concetto formale in Bopp (Vergleichende Grammatik…, 1933: 105);
– la radice come un’astrazione dei grammatici in Humboldt (Über die Verschiedenheit…, 1836: 75) e Pott (Etymologische Forschungen…, 1836: 147);
– la radice come concetto semantico in Schleicher (Compendium…, 1876: 133, 495);
– la radice come astrazione diacronica in Brugmann (Vergleichende Laut- und Stammbildungs- und Flexionslehre…, 1906: II.1, 5);
– il concetto tipologico-funzionale della radice in Saussure (Momoire…, 1878 8; Cours…, 1916 183, 246);
– la definizione distribuzionale della radice in Meillet (Introduction…, 1903 147; Linguisticque historique et linguistique générale 1923: II, 123);
– la polemica sulla definizione morfologica o sintattica delle parti del discorso in Delbrück (Einleitung in das Sprachstudium…, 1884: 75; Vergleichende Syntax…, 1893: 80);
– il ritorno della definizione astratta della radice in Hirt (Indogermanische Grammatik, 1927, II, 147);
– infine, la stabilizzazione del concetto IE di radice tra gli anni '30 e '50 del '900 (Benveniste, Pagliaro, Lehmann).
Attraverso la descrizione della nozione di radice negli studi IE si spera di mostrare che: l’esistenza della radice e l’accettazione della morfologia derivazionale sono problemi di linguistica generale, anche se nell'800 sono stati trattati quasi esclusivamente da studiosi di linguistica storica e di indoeuropeistica; che la confusione tra gli aspetti sincronici e diacronici della descrizione della morfologia derivazionale e della radice ha creato una sorta di malinteso tra il loro ruolo storico-diacronico e la loro funzione sincronica che rappresenta un fondamentale nodo storiografico ancora non del tutto risolto nella linguistica dell'800; che solo Bopp e Saussure in modo più completo (cfr. Belardi, L’Etimologia nella cultura occidentale, I, 256; Alfieri, The entry of the Indian Notion of root into Western Linguistics, in stampa), si sono resi conto del versante teorico-tipologico del problema della radice, questo nonostante che le grammatiche indigene araba e indiana (Pāṇini in modo speciale) fornissero un utile modello per una spiegazione sincronica della radice e della morfologia derivazionale; che la maggior parte degli studiosi di IE hanno negato la realtà della radice non solo a causa della mancata distinzione tra sincronia e diacronia, come mostrato indirettamente da Saussure, ma anche a causa della pressione del modello WP, allora dominante nell'analisi linguistica, che non consentiva unità di analisi inferiori alla parola.